
Secondo
i dati recentemente pubblicati dall’ISPI dopo la rielezione del Primo Ministro Narendra
Modi – leader del vincente Partito del Popolo Indiano (BJP) –
oggi l’India ospita circa un quinto delle persone che abitano il pianeta (1.33
miliardi). Ogni mese, circa un milione di persone entra nel mercato del lavoro
(che poi questi riescano a trovarlo è un altro discorso). L’India è inoltre il
quarto paese al mondo per numero di miliardari, il terzo per emissioni di
anidride carbonica, il primo per emigrati e produzione di film (la parola
“Bollywood” dice poco anche gli esperti del cinema europeo e americano, ma l’industry
cinematografica indiana – la prima al mondo – vanta enorme attenzione e ricavi
economici nel colosso del Oceano indiano).
Ed
è la seconda volta, dopo i tredici stati che daranno vita agli Stati Uniti, che
una ex colonia dell’(allora) onnipotente Regno Unito (da cui l’India è
indipendente dal 1947) supera in termini di Prodotto Interno Lordo (PIL) l’ex
madrepatria. Se nel 1989 il PIL britannico era di 1001 miliardi e quello
indiano 299, trent’anni dopo – complice decisivo la globalizzazione – i due
contesti economici si sono non solo parificati, ma invertiti: 2’830 miliardi il
Regno Unito, 2’970 l’India. In termini di export (dati World Trade
Organization) nel 2017 l’India esportava beni pari a 298 miliardi di dollari,
subito dopo Svizzera (299), Regno Unito (445), Italia (506), Giappone (698),
Germania (1’448), Stati Uniti (1’546) e Cina (2’263). Non a caso, l’immensa
penisola è il paese che è cresciuto di più nel 2018 (7.3 per cento), seguito da
Bangladesh e Vietnam (circa sette per cento). Per quanto riguarda l’import,
sempre secondo il WTO, per l’India questo era pari a 447 miliardi di dollari,
all’undicesimo posto dopo Italia (452), Corea del Sud (478), Paesi Bassi (574),
Hong Kong (589), Francia (624), Regno Unito (644), Giappone (671), Germania
(1’167), Cina (1’842) e Stati Uniti (2’409). Inoltre, secondo Eurostat, nel
2018 l’India aveva un deficit commerciale a suo favore con l’Unione
Europea pari a 0.1 miliardi di Euro; 45.7 miliardi era l’export ue
verso l’India, per importazioni pari a 45.8 miliardi.
Sebbene
sia il potere d’acquisto a contare più cifra in termini assoluti, l’India è un
paese in cui vige il salario minimo: se in Australia esso corrisponde a poco
meno di quattordici dollari all’ora – in Germania 9.9, negli Stati Uniti 7.2 e
in Cina 0.8 – in India è pari a 0.3. Secondo dati OCSE del 2015, il 13.6 per
cento dei lavoratori lavorava più di sessanta ore alla settimana. E per quanto
riguarda le spese militari in percentuale rispetto al PIL (una voce sempre
importante nei grafici a torta del Prodotto Interno Lordo) nel 2018 l’India era
all’ottavo posto (2.4 per cento), dopo Arabia Saudita (8.8), Israele, Pakistan,
Russia, Stati Uniti, Colombia e Turchia; il che corrisponde a 67.6 miliardi
secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).
Per
quello che poi concerne la salute dei suoi abitanti (tema non indifferente
visto il colossale numero di abitanti), l’India è un paese in cui solo il tre
per cento della popolazione è obesa (Banca Mondiale); i cui cittadini, in
media, spendono ottantaquattro minuti al giorno a mangiare e bere (OCSE; ai
vertici – ça va sans dire – Francia 133 e Italia 127). Per quello che
riguarda quindi i medici ogni centomila persone, secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS), per l’India la situazione è altamente drammatica:
4.2 in Germania, 3.6 in Cina, 2.5 negli Stati Uniti, 2.2 in Messico e Brasile,
ma solo 0.75 per il gigante silenzioso.
Un
ultimo indice che rivela molto dello “stato delle cose” di un paese è quello
“mediatico”. Secondo il World Press Freedom Index, l’India – monitorata dal
2013 – non ha fatto che peggiorare il suo status in termini di libertà
di stampa: nel 2016 era al 133esimo posto, nel 2017 al 136esimo, nel 2018 al
138esimo; quest’anno al 140esimo. Un’escalation che parla da sé.
Rispetto all’anno scorso, dopo che sei (ma pare sette, secondo Reporters
Without Borders) giornalisti sono stati uccisi nel paese, il 2019 – sotto
questo profilo – non ha avuto, per ora, tragedie umane. Nel rapporto di
quest’anno, RWB ha segnalato come i più a rischio siano testate – e quindi
collaboratori – che non lavorano per media in lingua inglese. In altre parole,
i giornalisti “locali” sono più a rischio di quelli della stampa estera o di
quelli indiani che lavorano per la stampa straniera. E tra l’altro, a proposito
di media, l’India è il terzo paese in termini di milioni di users di
Instagram; cinquantanove; dopo Brasile – sessantuno– e Stati Uniti, centoventi.
Il gigante a punta è il secondo paese al mondo per utenti di Internet, ma
quanto la rete sia schermata o meno da infiltrazioni e controlli governativi –
e gli istinti semi-autoritari dell’Esecutivo lo farebbero pensare – è difficile
a dirlo. Un sistema come quello di identificazione biometrica Aadhaar, lanciato
dal governo indiano già nel lontano 2010 con la scusa monitorare i servizi
sociali erogati ai cittadini indiani, non è certo uno strumento che giova alla democraticità
di un paese.
Amedeo Gasparini
Amedeo Gasparini