
La
carriera giornalistica di Zucconi iniziò presto nella capitale lombarda, dove
si era trasferito dalla profonda Emilia in cui era nato. Diplomato al Parini –
il liceo “bene” della Milano cruda e violenta degli anni Sessanta e Settanta –
collaborò al giornale studentesco La
zanzara – palestra di tanti promesse del giornalismo, a partire da Walter Tobagi – di cui diventò anche direttore. Necessaria rampa di lancio
per il futuro corrispondente dalla doppia cittadinanza italo-americana: dopo la
laurea in Lettere, è al giornale di Nino
Nutrizio La Notte che diventò cronista
da marciapiede. Solo in seguito passò al quotidiano torinese La Stampa, dove il direttore di allora Alberto Ronchey lo mandò a fare il
corrispondente prima a Bruxelles, poi a Washington. In seguito a Parigi per la Repubblica di Eugenio Scalfari e a Mosca per il Corriere della Sera di Franco
Di Bella. Poi il Giappone, Israele, le Filippine, gli Stati Uniti (di nuovo
e per sempre), il Messico e Cuba. La Guerra Fredda l’ha “importata” in Italia –
assieme ad altri grandi colleghi corrispondenti – attraverso la sua scrittura:
gli ultimi trent’anni del secolo scorso li ha raccontati tutti, guadagnando
così nel secondo quotidiano italiano fama e rispetto; fino al vertice
dell’emittente Radio Capital, che Zucconi ha diretto fin all’anno scorso.
America,
Asia, Medioriente, Europa centrale, d’accordo, ma sempre la giusta dose di
“malinconica” attenzione verso l’Italia, alla quale era affezionato, ma che
guardava con gli occhi di chi era uscito dal provincialismo del Belpaese.
Zucconi tornava regolarmente nel suo amato Stivale: a metà degli anni Settata
seguiva le vicende di terrorismo e gli intrecci tra malaffare e politica. Dalla
cronaca da strada, ai racconti della Casa Bianca. Di presidenti americani ne ha
conosciuti diversi e l’America della post-crisi iraniana del ‘79-‘89 l’ha
vissuta e narrata in prima persona. La scintillante stagione di Ronald Reagan, quella fumosa di George H. W. Bush, quella pop di Bill Clinton, quella bellica di Bush
figlio, quella controversa di Barack
Obama prima e di Donald Trump
dopo. Zucconi conosceva bene gli americani: il donnone del Texas e il contadino
del Montana, l’intellettuale di New York e il lattante dell’Ohio,
l’imprenditore della California e il lobbista di Washington li criticava e al
contempo li ammirava per la loro americaneggiante grinta e volontà di
rimboccarsi anche nei momenti più bui della loro storia. In quei momenti
Zucconi era lì con loro: dalle guerre del Golfo, ai traumi post-11 settembre,
fino alla crisi economica del 2007.
Certo,
la comoda e scontata tentazione di denigrare il gigante a stelle e strisce la
riconosceva anche lui e la rivendicava nei numerosi libri che ha scritto sull’“Homo Americanus”. Spesso Zucconi faceva
paragoni con il suo popolo – quello italiano – e quello con cui condivideva il
secondo passaporto, quello americano. In queste sue parole, nel suo L’aquila e il pollo fritto del 2008,
sintetizzava abilmente i suoi due amori giornalistici di una vita, l’America e
l’Italia. «Gli americani amano la Presidenza, non
necessariamente il Presidente, al contrario di quanto facciamo noi italiani,
che amiamo l’istituzione soltanto se a occuparla c’è, occasionalmente, uno che
ci piace.» Uno spunto di riflessione, tra l’altro, per il
voto europeo di oggi.
Amedeo Gasparini
Amedeo Gasparini